Donata Carelli mi spiega la vita
Avremmo potuto importare il diritto alla felicità. Abbiamo scelto i fast food.
Donata Carelli mi spiega la vita, nel senso più letterale possibile: appiattisce le pieghe della mia esistenza, i nodi ed i grovigli che non sapevo nemmeno di avere. E lo fa con il mezzo più semplice e più potente di tutti: le parole. Ancora una volta, come era già successo durante la lettura del suo romanzo, Io madre mai,1 mi sono ritrovata nelle sue riflessioni, pur partendo da un vissuto molto diverso.
Ho partecipato ad un incontro online con l’autrice intitolato “Madre o non madre: il diritto alla felicità2”. Pensavo di essere preparata, di ascoltare con un certo distacco. Invece, mi sono ritrovata coinvolta, quasi interpellata. Alla fine dell’incontro, avevo già le dita sulla tastiera. Questo testo nasce così: di pancia, nel tentativo di restituire qualcosa di quello che ho provato.
Si è parlato di ricerca interiore, di quel senso sottile, ma persistente di non sentirsi “a posto”, che ti spinge a esplorare, scavare, decifrare. A fare, per usare le parole dell’autrice, speleologia dell’anima.
E lì ho fatto un salto nel tempo: a quando da bambina giocavo solo con la mia immaginazione. Non c’erano case delle bambole o giochi strutturati. C’erano storie, mondi, dialoghi immaginari.
Ora capisco perché, ancora oggi, mi faccio costantemente “film mentali”: questo mondo interiore mi accompagna ancora. Non è una fragilità, ma la mia forma di resistenza, o per dirla alla Alessandro D’Avenia, di ri-esistenza3.
Si è anche riflettuto sul senso della vita e sul nostro rapporto con la morte.
Facciamo fatica ad accettare il senso profondo della vita perché viviamo in una cultura che rimuove la morte, la censura, la tiene lontana. Ed è vero, ma per me, che per lavoro la incontro ogni giorno, la morte è un tema quasi neutro. Non privo di emozione, certo, ma mai nascosto.
E forse anche per questo riesco a guardare alla vita con uno sguardo più ampio, non prigioniero delle narrazioni dominanti.
Passaggio cruciale dell’incontro è stata la riflessione intorno alla frase “Tu non puoi capire, perché non hai figli4.”
Una frase che punge, che taglia, che pesa. Non perché sia vera, ma perché si insinua con forza, mettendo in discussione ciò che sei, ciò che senti, ciò che vivi. Ti fa sentire un progetto incompleto, un prodotto difettoso. E la cosa peggiore è quando queste parole arrivano da altre donne. Perché il dolore di un'esclusione si amplifica quando a causarlo è qualcuno che dovrebbe riconoscerti.
Mi sono chiesta tante volte perché questa pressione non valga allo stesso modo per gli uomini. Nessuno chiede a un uomo se ha figli per misurarne il valore. Nessuno lo esclude da un discorso “perché non può capire”. Nessuno lo relega a essere “meno uomo” se non è padre. Se una donna realizza qualcosa di grande, invece, c’è sempre qualcuno pronto a sminuire: “eh, ma non aveva figli…”
E poi ci sono le donne che non volevano essere madri, ma che lo sono diventate lo stesso. Perché “così si fa”, perché “è il tuo destino”, perché “ti pentirai”. Come se la maternità fosse una casella da spuntare per potersi dire complete.
A tutto questo si aggiunge un altro mito: che diventare madre sia l’unica vera esperienza trasformativa.
E invece no. La trasformazione può avvenire in mille modi. Ogni vita è trasformativa. Ogni consapevolezza lo è. Siamo trasformative ogni volta che restiamo pienamente fedeli a noi stesse.
Io mi sento fedele a me stessa ogni volta che riesco a guardarmi allo specchio senza chiedermi se valgo abbastanza, anche se la mia immagine riflessa mi ricorda che, rispetto alla maggioranza delle donne, ho un elemento in più da considerare: la disabilità.
Un tratto per me identitario, ma che mi ha anche esclusa da alcune pressioni sociali che tante donne conoscono fin troppo bene. Nessuno, ad esempio, mi chiede perché non sono fidanzata. Nella testa di molte persone quella possibilità nemmeno esiste, figuriamoci la maternità. Come se la disabilità cancellasse il desiderio, l’intimità, la possibilità di essere scelta. Angelica e asessuata: queste sono le immagini che la società proietta su una persona disabile. Ma io non ci sto. La mia vita non è un simbolo. È una realtà, piena e intera, fatta di desideri, limiti, conquiste.
Oggi so che l'approvazione sociale non conta. E so anche che l’autodeterminazione è un diritto.
Il diritto di esistere a modo mio, di scegliere la mia strada, di credere che ogni persona sia completa così com'è, di non dover “aggiustare” la mia vita per farla piacere agli altri.
E allora torno lì, al cuore dell’incontro: al diritto alla felicità. Un diritto che negli Stati Uniti è addirittura scritto nero su bianco nella Dichiarazione d’Indipendenza. E noi? Dall’America abbiamo preso un po’ di tutto: fast food, reality trash, perfino certe disuguaglianze. Ma ci siamo dimenticati proprio la parte migliore: il diritto a cercare la propria felicità. Non quella imposta, preconfezionata, identica per tutte, ma quella che ci assomiglia davvero.
Io, mentre la cerco, continuo a sbagliare, a imparare, a cambiare prospettiva. E ogni volta che mi sento abbastanza anche senza figli, partner o modelli da seguire, sento che sto facendo pace con me stessa. Un passo alla volta.
🎈Se qualcosa in questo racconto ha risuonato dentro di te, ti va di raccontarmi la tua storia? Scrivimi. Leggerò ogni parola con attenzione.
D. Carelli, Io madre mai, 2024.
Promosso da Fondazione Rigel: https://www.fondazionerigel.it/
A. D’Avenia, Resisti, cuore. L’Odissea e l’arte di essere mortali, 2023.
Nel primo numero della newsletter ho spiegato la mia scelta di utilizzare il femminile sovraesteso.
In questo numero, invece, ho cercato di omettere il più possibile la parola “figli”, lasciandola qua e là volutamente al maschile plurale.
Un piccolo gesto simbolico per far emergere, tra le righe, un retaggio culturale.
Del resto, quante volte sentiamo ancora dire “auguri e figli maschi”?
Riflettiamoci insieme.
È assurda la poca importanza che come società viene data alla ricerca della felicità al di fuori dei tracciati comuni, come se si desse per scontato che tutte dobbiamo trovarci al modello della famiglia unica e pensare solo al nostro orticello! 😮💨
Lascio qui una mia canzone che penso possa accompagnare questo viaggio alla scoperta di ciò che ci rende felici e libere 💗
https://www.youtube.com/watch?v=a-yjoGgnI4s
Come sempre, più che raccontare, riprendo le tue parole, senza doverne cercare altre, perché le tue arrivano già dirette al punto!
Incontrare la morte tutti i giorni per lavoro aiuta effettivamente ad avere prospettive diverse e ad avere uno sguardo sulla vita più ampio... Aiuta anche a comprendere il "tu non puoi capire", che, se preso in senso letterale, ha anche il suo perché... Chi non ha vissuto una esperienza forte (che sia la morte, la maternità, la violenza, il dolore, il panico, la dipendenza, la disabilità...) può intuire e immaginare cosa si provi, ma non potrà capire completamente. Questo non vuol dire, ovviamente, essere automaticamente una persona incompleta... Semplicemente, non si è vissuto quell'esperienza, ma se ne saranno vissute altre.
Comunque, chiunque si guardi allo specchio fa una autovalutazione: se vali abbastanza, se ti senti sminuito, se hai sensi di colpa, se sei in pace con te stesso.... È la costante della vita di tutti quelli che hanno una coscienza, e che prendono atto dei propri limiti ed errori, ma se si è convinti di avere fatto quello che si riteneva giusto, lo specchio rimanda un riflesso gratificante.
E i "desideri" spingono a superare qualche "limite" per arrivare alla "conquista" di un qualche successo. So per certo che tu sai come mettere in atto questa strategia ! Si prova, si sperimenta, si oss e talvolta si sbaglia...ed è solo lì che è giusto "aggiustare" il tiro !
Io, per esempio, devo aggiustare la lunghezza dei miei commenti !!! 😁