Come non essere un'altra "scappata di chiesa".
Riconoscere e contrastare il disabilismo in un'istituzione millenaria
“Scappati di chiesa” è lo spazio che Diego Passoni dedica ai credenti imperfetti e non conformi (nei corpi, nelle forme di amore e famiglia, nel genere, nell’orientamento sessuale) e che, lo potete già intuire, ha ispirato questo numero della newsletter.
Fin da piccola, da “ragazza casa e chiesa”, ho vissuto gli ambienti cattolici come l’unico spazio possibile. Li amavo, ci credevo, partecipavo. Per anni ho cercato di inserirmi, di essere parte attiva. È solo dopo, finita l’università, che ho cominciato ad avere uno sguardo più critico.
L’istituzione “chiesa”, nei secoli, ha svolto un ruolo decisivo nel dare visibilità a chi prima era ignorato o nascosto. Le strutture ecclesiali, gli ordini religiosi, le opere di misericordia, gli ospedali, le accoglienze: tutto questo ha contribuito a rendere meno invisibili le persone con disabilità. Non sempre l’ha fatto nel modo più opportuno, infatti già nella «Scheda per il Giubileo dei Disabili» del 2000, la Chiesa ha “il coraggio di guardare a se stessa e rendersi conto delle inadempienze nel promuovere la vita delle persone con disabilità”.
Spesso, la persona con disabilità, nella chiesa (lo scrivo appositamente minuscolo, perché è una visione tipica dell’istituzione e quindi, per trasposizione della comunità) è vista come qualcuno da “aggiustare”, da guarire, da trasformare in “normale”. Del resto basta pensare a episodi evangelici tra i più noti: il paralitico a cui Gesù dice “prendi la tua lettiga e va’1” (sì, è lui quello dell’”Alzati e cammina”, non Lazzaro, che prima dell’intervento di Gesù aveva già fatto una fine ben più definitiva, se mi capite) o il cieco a cui “apre gli occhi”,2 o il sordo3 a cui “si aprono le orecchie” — brani evangelici potenti che spesso rimandano a questa idea: la perfezione, la guarigione, la “normalizzazione” come passaggio necessario per l’accettazione della persona. Brani, insomma, che interpretati da chi, come me, non è un esegeta, suonano come un “stai male → sei da curare / cambiare / salvare”, piuttosto che “sei una persona, già amata, già degna, con le tue specificità e fragilità”.
Potrei portarvi diversi esempi, sperimentati sulla mia persona, di “disabilismo4 ecclesiale”, ma non volendo riviverli nella mia memoria (non sono una persona rancorosa, ma chissà come mai li ricordo tutti), né volendo fare un processo alle persone responsabili (intrise di cultura disabilista e incapaci di riconoscerla), mi limito a raggrupparli in due tipologie:
Il servizio con riserva: mi si concede un ruolo, un’attività, ma sempre con l’impressione che sia un favore, non un diritto. Che la comunità stia facendo un’eccezione per me, non che io stia esercitando il mio diritto alla partecipazione sociale.
L’essere esempio: “Tu, con disabilità, insegni agli altri cosa significa affrontare le prove”; “sei benedetta perché porti la sofferenza”; “guarda quanti valori ci regali con il tuo esempio”. Una retorica che non è costruttiva, anzi è soffocante. Ti fa carico di un’eroica testimonianza anziché riconoscerti persona con tutte le tue sfumature, con bisogno di rispetto, non di esaltazione.
Dietro queste forme si nasconde un’idea: che la disabilità sia qualcosa da superare, da redimere, da trasformare in “qualità morale”, invece che una condizione dell’essere umano. È un pensiero che si intreccia con il linguaggio cristiano del “miracolo”: il cieco da guarire, il paralitico che deve rialzarsi, il sordo (ancora definito “sordomuto” anche nelle traduzioni più recenti) che deve recuperare l’udito.
La sfida è proprio qui: non rifiutare quei simboli evangelici, ma rileggerli senza pretendere che ogni persona con disabilità sia un miracolo ambulante o un modello morale. Il Vangelo parla di pienezza, ma la realtà umana è fatta anche di limiti — e i limiti non tolgono dignità.
Come credente, non chiedo una Chiesa perfetta. Chiedo una Chiesa che non tema di guardare le proprie ferite, che si lasci interrogare dalle persone con disabilità e che non tema di perdere il controllo quando la fragilità mette in crisi l’ordine stabilito.
Chiedo una chiesa che non si limiti ad “aprire le porte”, ma che abbia il coraggio di abbattere e ricostruire tutte quelle che la rendono, fisicamente e non solo, inaccessibile.
Chiedo una chiesa che:
smetta di considerare la disabilità come “problema da risolvere” e inizi a vederla come parte del tessuto comunitario, non un’eccezione ma quotidianità;
garantisca partecipazione reale, non solo simbolica, nei ministeri, nei servizi, nella liturgia, nella catechesi, nella formazione;
formi chiunque — sacerdoti, catechiste, comunità — sulla cultura della disabilità e sull’accessibilità, per evitare esclusioni, pietismi e modelli salvifici forzati;
non elevi la persona con disabilità a “modello morale”, ma la rispetti e valorizzi per ciò che è, con talenti e fragilità che non devono diventare giudizio
Non mi sembrano obiettivi irrealizzabili dai. Ce la possiamo fare, insieme, un passo alla volta.
Lc 5, 23-26
Gv 9, 2-8
Mc 7, 32-37
Qui vi spiego, nelle note, perché preferisco il termine “disabilismo” al più noto “abilismo”
Chiara, a parte il titolo che è geniale, questa volta ti sei superata: oltre alle consuete riflessioni propositive, questo è un saggio in miniatura. Per quello che vale il mio pensiero, trovo particolarmente irritante la concezione di ‘miracolare’ le persone con disabilità, presente sicuramente negli episodi evangelici da te citati ma ancora presenti nella chiesa moderna, ammiccante in tal senso alle fasce culturalmente più deboli, penso ad esempio ai pellegrinaggi a Lourdes et similia.