"Signorina" o "Dottoressa"?
Quando il linguaggio decide chi vale di più.

Ci sono parole che sembrano innocue, e invece rivelano molto più di quanto dicano.
“Signorina”, per esempio, può sembrare un vezzo gentile, un modo educato per rivolgersi a qualcuno. Spesso, però, dietro quella parola, si nasconde una gerarchia silenziosa: quella che decide chi merita autorevolezza e chi no.
In molti ambienti di lavoro, capita che chi ricopre un ruolo di responsabilità venga automaticamente chiamato “dottoressa” o “dottore”, anche quando non lo è davvero. È una forma di rispetto, certo, ma anche il riflesso di un’abitudine culturale: quella di attribuire valore ad una persona non in base alla competenza, ma alla posizione che occupa.
Chi possiede titoli di studio, competenze tecniche o conoscenze specifiche, ma un ruolo meno riconosciuto nella gerarchia, diventa facilmente “signorina” o “ragazza” — se donna. Se è un uomo, neanche a dirlo, è più probabile che venga chiamato “ingegnere”, “dottore” o “direttore”, anche quando quei titoli non gli spettano davvero.
Dietro queste sfumature linguistiche si nasconde una mentalità antica, che fatica a riconoscere il valore al di fuori dei ruoli prestabiliti.
Età, genere, origine o la presenza di una disabilità visibile possono influenzare la percezione di credibilità più di qualsiasi titolo o esperienza. La nostra società resta, in fondo, profondamente patriarcale, ageista, disabilista e gerarchica.
Eppure, è proprio nei piccoli gesti linguistici che si gioca la vera valorizzazione delle differenze. Le parole che usiamo plasmano i rapporti di rispetto e di potere.
Chiamare “dottore” o “dottoressa” una persona che ha un ruolo di responsabilità, anche senza conoscerne il percorso di studi, può avere un senso: è un modo per riconoscere l’impegno, la complessità e la responsabilità del suo incarico, dando per scontato che alla base ci sia una formazione accademica.
Il problema nasce quando questo stesso presupposto non viene esteso a chi ricopre posizioni diverse.
Quando, cioè, si presume che chi è ai vertici abbia necessariamente un titolo, e chi svolge ruoli operativi no — e lo si rimarca con un appellativo che suona gentile ma, in realtà, sminuisce.
È in quella differenza di aspettative che si rivela la vera disuguaglianza: nel credere che il valore di una persona dipenda dal titolo formale e non dalla sua esperienza, dalle sue capacità, o dal contributo che porta.
Forse dovremmo abituarci a usare le parole con più consapevolezza, a non dare per scontato che la competenza coincida con la posizione, e a domandarci — ogni volta — se stiamo parlando con una persona o con l’immagine che ci siamo fatti di lei.
Riconoscere le differenze invece significa proprio questo: guardare oltre i ruoli, oltre i corpi, oltre i titoli. Possiamo imparare a farlo, un passo alla volta.
🎈 Quale pensi sia il primo passo da fare per adottare un linguaggio adeguato?


In effetti i vertici gerarchici spesso sono contraddistinti anche da titoli di studio adeguati, ma non è raro il contrario... ( so dove vuoi andare a parare 🙂... ) e qui le sfumature linguistiche manifestano il loro peso...
Lo stesso peso che hanno l'approccio "disabilista" o razziale, che porta a dare automaticamente del tu a un ragazzo di colore o a parlare con condiscendenza e con toni infantili a una persona disabile....
Come sempre, arricchire la propria quotidianità con esperienze varie e diverse, aiuta ad ampliare i punti di vista, a uscire dagli schemi e a percepire la realtà con occhi più attenti e consapevoli.
Chiara docet....
Un abbraccio
😁🥰