Ho letto La cura Schopenhauer di Irvin D. Yalom. Non parlarne mi sembrava uno spreco. Non tanto per la trama, che non racconterò per evitare spoiler, quanto per l’effetto che ha avuto su di me.
Mi ha riportata indietro nel tempo, alle lezioni di filosofia del liceo.1 Non eccellevo, ma me la cavavo. Se c’era l’interrogazione programmata, mi offrivo volontaria: un modo per sfidare l’ansia, ma soprattutto per sentirmi vista dalla classe, ambiente che mi è sempre stato ostile.
Non ricordo molto delle opere filosofiche, ma ho sempre amato il pensiero. L’analisi e la teoria sono da sempre un rifugio per me.
Mi chiedo però: quante volte le parole non sono state solo un rifugio, ma un nascondiglio? Quanta vita ho perso rinforzando l’intelletto, mentre il corpo restava indietro? Quanto sapere è stato un limite, più che uno strumento?
Aristotele parlava dell’uomo come animale sociale. Schopenhauer, al contrario, diffidava dell’umanità.
E io, non so dire da che parte sto. Amo costruire legami, ma bramo l’isolamento, soprattutto quello che mi permette di immergermi nelle parole scritte da altre persone, per cercarne qualcuna che parli di me e mi dica chi sono.
Ho studiato a lungo, ho letto, approfondito. Negli ultimi anni mi sono dedicata soprattutto ai temi della disabilità, della diversity, dei diritti. Ho accumulato letture sociologiche, seguito corsi, conseguito un titolo accademico come disability manager.
Eppure, non riesco a tradurre tutto questo sapere in esperienza, a farlo diventare pratica.
Che senso ha conoscere nel dettaglio il valore delle differenze, se poi non riesco ad applicarlo?
Che senso ha sapere quali sono i diritti delle persone con disabilità, se poi, nella mia quotidianità di persona disabile, fatico a esercitarne anche solo uno?
Chi si occupa di disabilità sa quanto la teoria abbia plasmato il discorso pubblico: prima la medicalizzazione, poi l’assistenzialismo e l’inclusione formale. Nel tempo però è diventato sempre più evidente quanto sia urgente passare dalla teoria alla pratica, dal dire al fare, dal pensare al vivere.
I disability studies2 insistono su questo punto: il corpo, il vissuto, l’esperienza contano. E allora, se questo vale in generale, perché non dovrebbe valere anche per me?
Non ho risposte, ma sento che scrivere potrebbe essere la mia cura: raccontare per ricordarmi che vivere non è solo sapere. È anche sentire e agire. Un passo alla volta.
Anche nella prima newsletter la filosofia è protagonista: ho raccontato di come sia stato proprio l’esame universitario di filosofia del diritto ad innescare le prime domande su identità e orientamento sessuale. Se ti va di recuperarla la trovi qui.
Pride to be
Ciao, benvenuta in questo nuovo spazio, che ho creato per dare forma ai miei pensieri e alle mie elucubrazioni mentali, ma soprattutto per smettere di lasciarle solo mie.
I disability studies sono un campo interdisciplinare di ricerca nato negli Stati Uniti, che considera la disabilità non come una condizione individuale, ma come un costrutto sociale, culturale e politico. Sul punto consiglio: E. Valtellina, a cura di, “Sulla disabilitazione. Introduzione ai disability studies, 2025.