Accesso alla giustizia e diritti delle persone vulnerabili
Tra evoluzione e sfide culturali
Non mi definisco una giurista. C’è chi pensa che basti una laurea in giurisprudenza per esserlo e che da lì in poi tu debba conoscere a memoria ogni articolo, ogni normativa nazionale e sovranazionale. Io, invece, dopo la laurea non ho mai preso in considerazione l’idea di proseguire su quella strada, quindi non ho la competenza tecnica di chi vive ogni giorno in tribunale tra i codici.
Eppure, il tema dell’accesso alla giustizia mi sta particolarmente a cuore, perché credo che sia lì che si misuri quanto una società sia davvero capace di garantire diritti. Per questo, in questa newsletter ho scelto di essere un po’ più “tecnica” del solito, spero senza appesantire.
Per molto tempo il discorso sulla giustizia è stato paternalistico: si parlava di “proteggere” le persone vulnerabili, senza metterle davvero al centro. Poi, poco alla volta, qualcosa è cambiato. Non solo grazie a leggi e convenzioni internazionali, ma anche per l’attivismo e la ricerca che hanno mostrato un altro punto di vista: quello della parità sostanziale.
“Accesso alla giustizia” non significa solo avere diritto a un processo: vuol dire poter davvero far valere i propri diritti, comprendere le procedure, ricevere ascolto. È qui che emergono le barriere. Quelle strutturali, come tribunali non accessibili o procedure complesse; quelle comunicative, quando mancano linguaggio semplice o servizi di interpretariato; quelle economiche, perché i costi scoraggiano chi ha meno risorse; quelle culturali, fatte di stereotipi e pregiudizi sistemici che pesano nei giudizi.
Le persone con disabilità hanno spinto con forza verso una nuova visione. La Convenzione ONU del 2006 ha segnato il passaggio dalla tutela alla partecipazione, chiedendo non solo di rimuovere ostacoli fisici, ma anche di garantire accomodamenti organizzativi, comunicativi, attitudinali. Non è un cambiamento di facciata, ma una sfida quotidiana che riguarda l’esercizio della capacità giuridica e il diritto alla rappresentanza nei luoghi decisionali.
Anche le persone migranti e rifugiate conoscono bene gli ostacoli dell’accesso alla giustizia: difficoltà linguistiche, iter burocratici che si trasformano in trappole e soprattutto giudizi già condizionati da stigma sociale.
In questo quadro emerge quanto sia importante lavorare sulla prossimità e sulla formazione antidiscriminatoria. Bisogna poi parlare di equità procedurale andando oltre l’uguaglianza formale e riconoscendo che le persone arrivano davanti alla giustizia con condizioni soggettive e sociali diverse. E proprio per questo serve un’idea di giustizia intersezionale: non un lusso accademico, ma uno standard emergente nei diritti umani, capace di leggere come si intrecciano le discriminazioni. Una donna con disabilità richiedente asilo, ad esempio, non subisce tre discriminazioni distinte (per sesso, disabilità e origine), ma la sua esperienza è più della somma delle parti e richiede risposte nuove.
Parlare di giustizia significa riconoscere che le vulnerabilità non sono caratteristiche individuali, ma il risultato di strutture sociali diseguali. Non basta che il diritto sia formalmente uguale per tutte: deve diventare realmente accessibile, comprensibile e trasformativo.
Non ho ricette facili e non penso che bastino le norme per cambiare la realtà. Credo però che anche nel diritto, come in altri ambiti, le trasformazioni profonde si costruiscano così: un passo alla volta.
Vero...Ogni trasformazione culturale richiede un cammino lento per entrare a fare parte della vita quotidiana...ed è altrettanto vero che se non si comincia a camminare non si arriva da nessuna parte....
Ma, al solito, la difficoltà più grande sta nel vedere superati gli stereotipi più comuni....e questa è la tua battaglia principale! Quindi.. Forza Chiara! Avanti tutta !
Chiara, questa cosa che nei tuoi scritti non sbagli mai una virgola né nella forma né soprattutto nella sostanza comincia a diventare imbarazzante! 😀